Non credo che lo scudetto della Sampdoria, sia stato uno “scudetto in libera uscita”: definizione poetica abbastanza azzeccata. Si aveva come la sensazione che tutta l’Italia facesse il tifo per quella piccola Cenerentola (tifosi del Genoa a parte).
Nel caso della Sampdoria 90-91, tenderei ad escluderlo.
Il Leicester, per fare un paragone simile a quella che è stata l’impresa della Sampdoria, è stato uno sberleffo in faccia ai miliardari del petrolio e del gas metano… E proprio questo è stato il suo segreto. La Samp, invece, vinse coronando un percorso che la collocava stabilmente, e da diversi anni, tra le grandi del campionato. E (si badi bene) si parla di un contesto probabilmente irripetibile per il calcio italiano, che all’epoca dominava in lungo e in largo in tutta Europa.
Così, vincemmo lo scudetto mettendo in fila il Milan degli Olandesi e l’Inter dei record. Lasciando a debita distanza il Napoli di Maradona e la Juve di Baggio; più altre “squadrette” che ti raccomando, tipo il Parma di Nevio Scala, Il Toro di Mondonico (che menava duro) e il Genoa di Bagnoli (quello con Skuhravy, Aguilera e Branco).
La “mostruosità” sta tutta lì: nel valore delle contendenti, e nello standard (oggettivamente altissimo) del livello del campionato.
Vincemmo perché, oltre alla classe, avevamo una squadra ricca di attributi e di personalità: senza i quali (concetto ottimamente espresso anche da Max Allegri, domenica scorsa) non si raccoglie niente, a parte le pacche sulle spalle.
Era una Samp nemmeno più tanto sbarazzina, bensì con l’età giusta per vincere (tutti dai 25 ai 30 anni), ma con le briglie abbastanza sciolte; allenata da un uomo in gamba, più Preside di scuola media che non fine stratega (quale Boskov, infatti, non fu mai).
E “Pagliuca-Mannini-Katanec” diventò il nostro “mantra”, in quel maggio ormai lontano: l’equivalente del “Sarti-Burgnich-Facchetti per gli Interisti, o lo “Zoff-Gentile-Cabrini” per gli Juventini e i nostalgici di Spagna’82.
I migliori, senza offesa per nessuno, furono tre: Vierchowod, che è stato il più grande difensore degli ultimi quarant’anni (arrivo in corto muso con Scirea, Maldini e Baresi). E che fece sembrare Beckenbauer anche il Marco Lanna che gli giocò spesso accanto; così come era già successo con Galbiati alla Fiorentina e Di Bartolomei alla Roma.
Poi, Luca Vialli, che fu capocannoniere e trascinatore. Voglioso di ribalta dopo un Mondiale vissuto malissimo: le Notti Magiche aspettavano solo lui, che doveva esserne assoluto protagonista. Fu il primo ad annegare, e Totò Schillaci gli rubò tutta la scena.
Infine, Roberto Mancini: leader assoluto e nemmeno troppo silenzioso: goleador, assist-man e dispensatore di una qualità che si espresse, talvolta, ad altezze vertiginose.
Più tutti gli altri: l’operaio Pari e il razzente Lombardo. La misura di Beppe Dossena. Il Brasiliano atipico Cerezo, ovviamente. Che “la notte di Capodanno dorme, perché è un professionista”, come da battuta di un celebre film.
Ci fu anche Mickailichenko, ma si rivelò triste e agro, come lo sanno essere solo i Russi, devastati dalla nostalgia di casa. Doveva essere il valore aggiunto, e finì per reggere lo strascico a Invernizzi.
Dopo quello scudetto, arrivò Wembley, e la fine della fiera. E in quella tribolatissima notte inglese, al cospetto di un Barcellona né marziano né tantomeno irresistibile, si chiuse il periodo della cosiddetta “Samp d’oro”.
Poi ce ne furono altre, di Samp interessanti: che fecero ottimi piazzamenti e misero in vetrina campioni assoluti . Tipo il Gullit disfecciato dal Milan (che poi se lo riprese),e Veron, e Mihajlovic. Enrico Chiesa e Montella. Per non dire di Seedorf, Jugovic, Platt. E financo un Karembeu, o un Pierre Laigle, che averli oggi accenderesti un cero alla Madonna.
Ma lo scudetto non arrivò più: fu un evento non replicabile.
E non lo sarebbe nemmeno se tornasse il redivivo Paolo Mantovani, che alla sua squadra volle un bene dell’anima. Sono cambiate le regole e, soprattutto, la voce “uscite” sul bilancio di fine anno. Conseguentemente, è diventato un football dove anche un Berlusconi, ormai, fa la figura del pezzente (mentre all’epoca poteva permettersi De Napoli solo per il vezzo di toglierlo alla concorrenza).
E dove quei due, tre calciatori decenti che ancora toccano alle squadre come la Samp, durano si e no fino alla prima sessione invernale di mercato (tipo Gabbiadini, o Eder).
Ma fu, quella, una bellissima annata: ricordo che la domenica ero impegnato in una radio privata, dove conducevo un seguitissimo programma in diretta sul calcio dilettanti. Alla fine di quel Samp-Lecce 3-0, che ci dette la certezza matematica, interruppi un corrispondente che stava descrivendo una partita di seconda categoria per riempirmi finalmente la bocca con quelle parole che mi parevano impossibili: “Scusa, interrompo da studio. La Sampdoria è Campione d’Italia”.
Era la prima volta che lo dicevo.
Non lo dirò mai più.
RIccardo Lorenzetti (cuore doriano).
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