Non riesco a capire perché continuano a costruire atleti bionici.
Quei Cyborg che vincono le medaglie d’oro alle Olimpiadi e che poi non lasciano nessun segno: negati a qualsiasi prerogativa umana in grado di farti parteggiare per loro, o di procurarti quel brivido e quell’emozione che sono alla base di qualsiasi impresa sportiva.
E ripenso con nostalgia anche alla mia maestra elementare, quando ci indicava a modello la grande ginnasta Olga Korbut.
“Guardate che classe…” –diceva- “…E che eleganza”.
Noi vedevamo, piuttosto, una donna imprigionata nel corpo di una bambina di otto anni. Classico prodotto da laboratorio che andava piuttosto di moda in quegli anni (parlavano di una giavellottista sovietica che si faceva la barba tutte le mattine); e ci meravigliamo come persino un’insegnante così attenta potesse cadere in un tranello del genere.
Ma forse era, il suo, un riflesso incondizionato: una specie di istinto di sopravvivenza sportiva di fronte ad una masnada che aveva eletto l’album Panini a ragione di vita.
Dicono che escluderanno la Russia dalle Olimpiadi: o forse no, perché Putin ha un sacco di gas, petrolio e minerali ferrosi (e quindi può fare la voce grossa).
Mi stupisce, semmai, come si continui ad avere dello sport, e di chi lo segue, un concetto così cretino: non riuscivo a capirlo quando ero un bambino, e continuo a non capirlo adesso, che bambino non lo sono più.
Perchè nello sport non ci si guadagna niente, se non un’emozione. E quindi di un campione si ammira la classe, la potenza, la bravura. Ma soprattutto si ammira la sua umanità. E può capitare di ammirare anche la debolezza nel vederlo arrivare secondo; quando ha dato tutto e va a stringere la mano sorridendo a quello che l’ha battuto.
Evidentemente si pensa che la vittoria sia sopra ogni cosa, ma un distinguo bisogna cominciare a metterlo… Comincerei dal sapere, per esempio, se c’è qualche bambino che tiene in camera un poster di questi energumeni.
Io no. Non ce l’avrei tenuto.
Mi sarebbe sembrato di fare il tifo per un robot, anziché per un uomo. Al massimo per Ivan Drago. Ricordate? Era il pugile biondo di Rocky IV. Faceva il co-protagonista del film ma aveva l’aria dell’ebete; e diceva solo quattro parole: “Ti spiezzo in due”.
Va pur detto che, ormai, questo del doping (più o meno di stato) è un problema globale, e non riguarda solo la Russia o l’atletica leggera. Penserò male, ma sono sempre più convinto che anche alla base della depressione di Marco Pantani ci fosse una riflessione di questo genere. “Avete distrutto me che avevo l’Epo a 50,1 e magari applaudite quelli che viaggiano sul filo del 49,9”.
Ma è proprio il concetto di campione, e di sport, che andrebbe rivisitato e corretto, perché è lì che nasce la vera lotta al doping, prima ancora che nei laboratori della Wada.
Lì, e nel cuore dei tifosi, che (non dimentichiamocelo) alla fine sono i veri padroni del mercato.
E che potrebbero cominciare a porsi una domanda semplice semplice, tanto per cominciare: “Tra Armstrong, che ha vinto sette Tour de France, e Gino Bartali che ne ha vinti due, voi chi scegliereste?”.
Vedreste che fine farebbe il doping.