Se c’è una jattura nel calcio italiano, è il cosiddetto “gruppo”.
Ce l’hanno corbellato così tanto che alla fine ci siamo convinti che se si vince è merito del “gruppo”, e poi in subordine delle qualità dei giocatori o delle prodezze del singolo. E se si perde, è proprio perché non si è fatto “gruppo”. O non lo si è fatto abbastanza.
Sono quelle cose dure a morire: luoghi comuni che diventano certezze e vengono prese per oro colato. Come Hitler, che è vivo e abita in Paraguay o quella storiella della ragazza che scrive sullo specchio del bagno “Benvenuto nel mondo dell’Aids”, dopo averci fatto l’amore.
Alcuni la raccontavano così bene che alla fine ci credevano anche.
Il “gruppo”, calcisticamente parlando, nacque nell’82, in Spagna. Prima, nessuno sapeva cosa fosse: ma quell’idea di un calcio un pò socialismo un pò boyscout piacque talmente tanto che, da allora, si pensa che il segreto per vincere sia racchiuso là dentro: nei bravi ragazzi che non litigano tra loro, si prestano lo shampoo e il sabato sera si ritrovano per l’amatriciana.
Che quei bravi ragazzi si chiamassero Zoff, Scirea, Bruno Conti o Tardelli parve un dettaglio da poco: l’importante diventò il “gruppo”. Il resto sarebbe venuto da sé.
Con il “gruppo”, infatti, abbiamo vinto nell’82 e nel 2006. Omettendo magari le brutte figure dell’86 e del 2010, nelle quali la salvaguardia del “gruppo” risultò addirittura deleteria.
E grazie al “gruppo” ci siamo giocati spesso qualche convocazione che avrebbe magari fatto comodo, sacrificando qualcuno sull’altare degli equilibri da salvaguardare.
Vicini, in questo, era un maestro: pur di non fare ombra a Giannini rinunciò a un Matteoli protagonista con l’Inter dei record. Gilardino, nel 2004, ne segnava uno dietro l’altro, e lo lasciarono all’Under 21. Non voglio nemmeno ricordare il Baggio ostracizzato nel 2000 e nel 2002 per non turbare il sonno di Totti, Vieri e Del Piero….Lo stesso che hanno fatto Lippi con Cassano e Conte con Balotelli (ma lì, ammetto, non abbiamo perso granchè).
Il “gruppo” (si sarà capito) non mi convince.
Rimango dell’idea che, in sede di convocazioni, valga la regola dell’esperienza, del talento e della forma fisica che si ha al momento. Un Europeo e un Mondiale durano venti giorni, e le partite che contano sono due o tre; il Paolo Rossi che passa alla storia fa tutto in sette giorni. Comincia il 5 e finisce l’11 luglio.
Ergo, avrei portato Pavoletti (che adesso come la tocca, la mette dentro). Gabbiadini, perché non ha giocato mai, e verosimilmente dovrebbe essere fresco e affamato. Ovviamente, Insigne: che è tra i pochi in grado di farti un numero, giocare l’uno contro uno e tirare una punizione da cristiano. Se non ci fosse stato lui, Giovinco (pensa te).
Ma non sarò così ingenuo da pensare a questa gente come ai Salvatori della Patria.
Il convento passa pochino, e pensare che ti possa risolvere il problema Pavoletti… Beh, sembra quantomeno azzardato. Chi fa le convocazioni non è un ebete: conosce il suo mestiere e i giocatori che ha a disposizione: in più, ha il conforto della scienza e della fantascienza. E poi, occhio a sparare sul pianista: nell’82 Bearzot fu crocifisso perché tutti volevamo Pruzzo e Beccalossi, e guardate com’è andata a finire.
Chiedo, da tifoso, solo una cosa: che in conferenza stampa, Antonio Conte ribadisca a gran voce che Eder, Pellè e Immobile sono i più bravi, e i più in forma che abbiamo.
Sono disposto a credergli.
Basta che non tiri fuori il “gruppo” e le gerarchie da rispettare.
Perché è la volta buona che prendo il Galles.