Sebastian Giovinco, racconta in questa lunga intervista, quelli che sono stati i suoi inizi, dai campetti polverosi di periferia, fino ad arrivare all’MLS, passando per quella che è stata la sua più grande sfida, la JUVENTUS.
GLI INIZI:
“Ricordo il campo su cui ho giocato a Torino quando ero bambino. Non c’era erba, ma solo qualche sporca linea di gesso, da spolverarsi ogni volta che ci si finiva sopra. Il terreno era duro, quindi se si cadeva c’erano buone possibilità di rompersi qualche osso. Ma quel campo era tutto ciò che avevo: non c’erano centri commerciali o grandi cinema nella mia città. Potevi giocare a calcio o… giocare a calcio. Su quel terreno terribile. Tranne all’inizio, quando non volevo giocare a calcio. Non ero come gli altri bambini italiani che sognavano di andare in Serie A. Non la guardavo molto nemmeno in tv. La maggior parte del tempo lo trascorrevo con mamma, che lavorava nel piccolo bar di mio zio. Alle cui spalle c’era il campo. Passavo molto tempo con i miei amici e qualche volta guardavo i ragazzi giocare a calcio, qualche squadra che disputava campionati regionali. Un giorno la squadra di casa stava giocando una partita sette contro sette e mancava un giocatore. Avevo solo sei o sette anni e i ragazzi della squadra erano di qualche annno più grandi. Immaginavo che fossero disperati perché mi chiesero di unirmi a loro, ed ero l’unico nei paraggi. Da quel momento capii: le cose sarebbero state diverse per me. Giocare a calcio mi rendeva felice, era divertente e mi aiutava a fare nuove amicizie. Così tornai a casa e raccontai a mio padre di quel giorno, di quella squadra e del fatto che volessi continuare a giocarci. Il giorno dopo tornai, e anche quello successivo. Cominciai come centrocampista, mi piaceva fare assist. Ma poi realizzai che la cosa che mi faceva stare meglio di un assist era segnare. Il gol era la cosa più importante, la strada per vincere.
La scuola divenne un di più. Passavo tutto il giorno ad allenarmi, potevo giocare ovunque: campi, parchi in città, anche in casa con mio fratello minore Giuseppe. Era un appartamento piccolo per tutti e quattro, c’era una sola stanza da letto in cui c’erano i miei. Io e Giuseppe dormivamo in salotto e durante il giorno giocavamo tirando contro il muro. Mamma impazziva. ‘Seba, hai rotto un’altra cornice!’. Vivevamo a 15 miglia dal Delle Alpi, ma non avevo mai avuto i biglietti per andare a vedere la Juventus, figuriamoci per comprare i completini. Dopo un anno più o meno, uno scout della Juventus mi invitò ad unirmi al settore giovanile. Sembra assurdo, ma successe proprio così velocemente. Poiché vivevo vicino al centro sportivo, continuai a vivere con i miei genitori. Ogni mattina papà mi accompagnava con la sua Renault 5. Poi tornava a casa e accompagnava mamma a lavoro. Quindi la andava a riprendere la sera, affinché potesse prepararmi da mangiare mentre lui mi veniva a prendere all’allenamento. Posso giurare che fece tanti di quei chilometri, che doveva cambiare Renault ogni due anni.A papà non piaceva il calcio. Tifava Milan ma non l’aveva mai visto giocare nemmeno in tv. Quindi lui era felice che io giocassi nella Juve finché lo ero io. E per un periodo non fui contento. Avevo 15-16 anni e non giocavo quasi mai. Così la maggior parte delle volte che tornavamo a casa mi mettevo a piangere. Un giorno fermò la macchina e disse: ‘Seba, domani non ti ci riporto’. Lo guardai, asciugandomi le lacrime. ‘Perché?’. ‘Perché non ti sto portando qui per piangere’.Ci pensai un attimo, mi dissi che non dovevo piangere ma lavorare duramente. E vincere. Che era tutto ciò che si aspettava il club. Niente lacrime, niente di niente. C’è questa mentalità alla Juve, molto semplice: vincere. Ti insegnano il rispetto e a vincere con rispetto. Ma alla fine del giorno, conta solo una cosa: vincere. Quando avevo 17 anni fui portato nell’ufficio dell’allenatore per firmare il mio primo contratto ufficiale con la Juventus. Ero minorenne, quindi mio padre venne con me. E io portai con me mio padre per fargli firmare un’altra cosa, un contratto per un nuovo appartamento. E’ stata la prima cosa che ho comprato per la mia famiglia, dove ognuno aveva una stanza.Ricordo la prima volta che sono entrato in campo allo stadio. Non era nulla di simile a quel campo con le linee sporche dietro casa. Stavo giocando vicino a Del Piero, facendo assist a Trezeguet. Ero orgoglioso che eravamo tornati in Serie A alla prima stagione. Non penso che avrei avuto l’opportunità di giocare così tanto se fossimo stati in Serie B. Per me, come sempre, la cosa più importante era essere in campo. Ma pochi anni dopo, mi accorsi che non avrei avuto uno spazio maggiore in bianconero. Sono stato un paio di volte in prestito e con il mio contratto in scadenza con la Juve, ho cominciato a pensare di trasferirmi in MLS. Il Toronto mi ha cercato e la conversazione è stata molto veloce. Da quel momento avevo soltanto una squadra in testa, il Toronto. In 2-3 giorni avevamo trovato già un accordo.La prima volta che sono arrivato a Toronto è stato nel febbraio 2015. E quando l’aereo atterrò, la cosa che ricordo meglio di quel giorno era il gran freddo. Oltre alle centinaia di tifosi accorsi per me in aeroporto. Non penso che avrei immaginato quanto sarebbe stata bella la città. E’ stata una strana sensazione, ho giocato per altri club in altre città e non è facile trasferire la propria vita. Non è facile arrivare in un posto nuovo ed essere subito accettati. Prima che arrivassi qui, pensavo che questa poteva essere una squadra in grado di fare qualcosa di speciale, non saprei dire perché. Quando ho conosciuto gli altri ragazzi, mi è parso di vedere in tutti la stessa mentalità, lo stesso obiettivo. Tutti volevano fare una cosa: vincere. E l’abbiamo fatto. Nel 2015, la mia prima stagione, abbiamo fatto i playoff per la prima volta nella storia del club. Ma potevamo fare di più. Penso che quando li abbiamo aritmeticamente raggiunti, abbiamo festeggiato troppo e abbiamo perso le ultime due partite di campionato. E siamo stati buttati fuori al primo turno dal Montreal., penso che c’era quest’altra parte del modo di ragionare della Juventus, che dovevamo imparare a Toronto. Si vince oggi, si festeggia oggi: poi si guarda avanti. Quella sconfitta col Montreal fu molto emotiva per me. Volevo provare qualcosa alla squadra, alla città. Volevo mostrare perché ero lì e cosa potevamo fare. Ma tutti abbiamo imparato da quella partita. E’ stato come l’inizio di un viaggio per la squadra. Pensavamo che le cose si fossero messe a posto nel 2016: avevamo battuto il Montreal ai playoff ed eravamo in finale.Quella finale. Cosa possiamo realmente dire? Se devo essere onesto, avevo questa sensazione un paio di giorni prima. Non so, c’era qualcosa che inconsciamente mi diceva che le cose non sarebbero andate a nostro favore. Lo dissi a qualche familiare e amico. E provi a toglierti questa sensazione il giorno della partita. Abbiamo avuto la nostra occasione, ma non abbiamo finito. Io non ho finito. Potrei chiedermi cosa sarebbe successo se non fossi stato sostituito per crampi. Potrei chiedermi cosa sarebbe successo se avessi fatto questa o quella cosa. Ma alla fine non cambia nulla, che si sia vinto o perso bisogna guardare avanti. Abbiamo fatto piccoli cambiamenti e c’è qualcosa che dobbiamo fare. E’ l’ultimo pezzo del puzzle, e penso che ci siamo molto vicini.
Dopo ogni vittoria, abbiamo smesso di festeggiare e andiamo avanti. E lo faremo finché non porteremo un titolo a Toronto “.
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