A Gennaio di quest’anno “The Sound of Silence “, canzone dal grandioso potere evocativo che ha fatto la storia della musica, ha compiuto i 50 anni dall’uscita nella sua versione definitiva.
Negli anni non si contano neanche più il numero di cover e imitazioni varie del pezzo.
La più bella secondo me rimane quella realizzata durante l’arco di tutta la sua carriera da Tim Duncan, nato giusto 10 anni e qualche mese più tardi del magnifico singolo di Simon e Garfunkel.
Un uomo che nel silenzio ha costruito tutti i suoi successi e del silenzio si è rivestito corpo e anima come fosse una seconda pelle.
Detto, ridetto e ripetuto. E lo ridico ancora.
Provare a decriptare il basket restando nel recinto del parquet è un esercizio sterile, se non completamente inutile.
E non lo dico solo io.
Un tale che ne sa infinitamente più di me e di tutti voi lo ha ribadito a più riprese.
“Se pensiamo che il basket sia solo basket non abbiamo capito niente di basket“.
E nemmeno della vita, ma questo lo aggiungo io.
Ha vinto 5 anelli, 2 MVP, 3 premi di miglior giocatore delle finali e giocato 15 All Star Game.
Cercare di capire cosa si celi dietro i suoi silenzi e la sua enigmatica maschera facciale è impresa veramente ardua.
Capire quella sorta di autismo cestistico scolpito sul suo volto è un enigma che dura da 20 anni.
Per capire Duncan non basta più solo uscire dal rettangolo di gioco come spiegavo prima.
Per capire Duncan forse servirebbe Umberto Eco.
Bisogna sconfinare nella semiotica, la disciplina che studia i segni e il loro percorso verso la significazione, cioè il modo in cui questi acquisiscano un senso e vadano a costituire un concreto processo di comunicazione.
Capire Duncan potrebbe essere la chiave di lettura per capire il segreto dei San Antonio Spurs.
Per poi arrivare a capire cosa leghi lui, Popovich, Ginobili e Tony Parker.
Come facciano a comunicare tra loro spesso senza nemmeno aprire la bocca.
C’è un qualcosa nell’alchimia che questi quattro uomini hanno creato che trascende i confini dello sport. E’ un legame , inconosciuto, inconoscibile ed esclusivo che forse nasconde dentro di sé il senso stesso della vita.
Beh.. forse quello no ma di certo c’è il segreto del loro successo sportivo. La faccia di Duncan è quella di Anton Chigurh , il killer spietato di “Non è un paese per vecchi“. E’ la faccia spaventosa di Javier Bardem nel film dei Cohen.Che si appresti a saltare per la palla a due di una partita di pre-season o che stia per tirare il libero della vittoria in gara 7 delle Finals, state certi che vedrete sempre la stessa espressione.
E la sconfitta o il successo saranno conditi con l’ingrediente di sempre.
Il Silenzio.
Quella in corso era per lui la stagione numero 19.
Quello in corso era per lui il playoff numero 19.
Arrivare per 19 volte consecutive alla post-season significa creare una falla nell’intera struttura dello sport americano.
Tutte le leghe sono pensate, organizzate e governate per poter produrre ed esprimere ciclicamente un cambiamento al vertice.
Il salary cap, che impedisce alle squadre forti di aggiungere “troppi” giocatori forti a quelli di cui già dispone, e il draft annuale, dove le squadre con le classifiche peggiori hanno le possibilità maggiori di accaparrarsi i giovani più validi ne sono le dimostrazioni più lampanti.
Che poi il fine ultimo di questa struttura magari non sia proprio quello di una maggiore circolazione dei talenti, nè di un ampliamento geografico delle passioni, ma di una maggiore e capillare raccolta di denari è un altro discorso.
San Antonio è andato oltre tutto questo.
Gli avversari si sono effettivamente rinnovati e interscambiati. Golden State è un esempio di come un’ottima gestione manageriale e delle scelte al draft possa portarti dalle stalle alle stelle. Loro no. Loro son sempre sulle stelle. Loro sono sempre lì a lottare per il titolo.
Duncan ad oggi ha giocato più di 1500 partite in stagione regolare.
Ne ha vinte più di mille.
Questo significa che ha “terminato” l’avversario di turno praticamente sempre.
Un sicario determinato, silente e senza cuore. Proprio come Anton Chirurg.
In attacco ha messo a referto più di 26 mila punti.
Ma mai una volta che abbia urlato “Yeah”, o agitato i pugni, o sventolato un dito verso pubblico o avversari.
In difesa ha messo a referto più di 3 mila stoppate.
Ma mai una volta che abbia abbaiato contro l’avversario frasi come “Not in my house” o lo abbia schernito a gesti.
Lui no.
Lui agli avversari ha sempre lasciato solo e soltanto il suono del silenzio.
E’ stato un dominatore del pitturato come non se ne vedevano dai tempi di Bill Russell.
Ha fermato tutti gli avversari che hanno osato entrare nella sua casa.
Li ha lasciati lì nella loro indeterminatezza più totale. Piccoli e indifesi contro un colosso senza volto. Dominati come da un Dio dell’Antico Testamento che ti piega al proprio volere.
Ho in mente alcuni frammenti dei duelli epici che fece con Kevin Garnett. Uno contro uno. Faccia a faccia, con Garnett che dà sfogo al suo trash talking più feroce.
Roba che indurrebbe Gesù Cristo in persona a schiodarsi dalla croce per prenderlo a schiaffi.
Duncan non lo guarda mai, non risponde, muove le braccia, prende la sua posizione, manda un bacio al fidato tabellone e mette i due punti. Poi torna nella sua metà campo come niente fosse. Come se il rognoso avversario neanche esistesse. Lasciando al malandrino provocatore solo il suono del silenzio.
Ma anche a mettere insieme tutti i suoi numeri strabilianti, tutte le sue azioni di gioco daBibbia del basket non si cava un ragno dal buco. Perchè questa non è un’equazione, o un documentario. Qui siamo ben sopra il livello della matematica o dell’indagine giornalistica,ed è inutile cercare di capire Duncan restando in questi campi. Se voi ci avete capito qualcosa scrivetemelo pure nei commenti.
Io son sincero, non ci ho capito niente.
A 34 anni aveva già vinto quello che doveva vincere o forse di più.
Non ho capito perché non ha mollato a 35 anni dopo un’eliminazione al primo turno.
Non ho capito perché non ha mollato a 36 anni dopo che l’impietoso gap fisico atleticocontro gli Oklahoma di Durant gli aveva precluso un’altra finale.
Non ho capito perché non ha mollato a 37 anni dopo una finale persa anche per colpa sua.
Non ho capito perché non ha mollato a 38 con il quinto anello al dito.
Non ho capito perché non ha mollato a 39 dopo un’eliminazione bruciante al primo turno.
E allora tanto vale andare idealmente tutti insieme a non capire in Cile.
Sull’isola di Rapa Nui per la precisione.
Lì possiamo accovacciarci ad ammirare la migliore rappresentazione plastica di Tim Duncan mai realizzata.
I Moai.
I giganteschi monoliti in tufo vulcanico che custodiscono l’isola.
Impassibili e dominanti proprio come Tim Duncan.
E proprio come Tim Duncan custodi di un segreto inconoscibile su cui ci si interroga da più di un millennio senza lo straccio di una risposta convincente.
Accontentiamoci quindi di poterli ammirare e godiamoceli in religioso silenzio, consci di essere davanti a qualcosa di più grande sia di noi che del luogo fisico che li ospita.
Godiamoci magari il suono stesso del silenzio, come piace a Tim, e sempre in silenzio, se mai fosse possibile.
Se c’è un uomo che ha veramente giocato sempre pulito è lui.
Michele Ghilotti, il Profeta – Born in the post