Il figliol prodigo è tornato a casa, nella sua Barcellona, dopo 18 stagioni in NBA. La sua è una carriera straordinaria, per il quale è previsto un unico gran finale: Tokyo 2021.
Pau Gasol non ha bisogno di presentazioni: è il più grande e più vincente cestista spagnolo di tutti i tempi, nonché nella top tre personale di chi scrive questo articolo dei non americani più decisivi della storia del basket. Gli altri due non li dico neanche, perché li sapete. Anzi, ve li dico alla fine dell’articolo e nei commenti mi farete sapere se siete d’accordo con me.
Ma torniamo a Pau.
Una sterminata collezione di medaglie d’oro e d’argento con la sua nazionale tra Olimpiadi, Mondiali ed Europei. NBA Rookie of the year nel 2002. Sei convocazioni all’All-Star Game, tra cui una da centro titolare degli Eastern All-Stars (contro suo fratello Marc titolare dei Western All-Star). Due anelli NBA vinti da assoluto protagonista nel ruolo di fido scudiero Kobe Bryant, che forse, nemmeno di Shaq si fidava così tanto nel rettangolo di gioco. Mani di cristallo, piedi di fata. Poi tanto altro, cose che non tutti vedono: milioni di blocchi lontani dalla palla, sfondamenti subiti in difesa all’ultimo minuto, rimbalzi decisivi canestri pesanti come macigni. Ma facciamo un passo indietro.
Gasol nasce a Barcellona il 6 luglio 1980: ed è già un predestinato. Dire che alle medie era già il più alto della classe però non basta; il ragazzo ha un talento cristallino, un intelligenza sopraffina per il gioco e delle mani molto educate. Per l’appunto, una visione del gioco – che gli permette di capire prima degli altri – e delle mani da point guard da Eurolega alla tenera età di 15 anni… e 2 metri e 10 di altezza. Dopo aver dominato in lungo e in largo in Cantera, mettendosi in luce nei campionati giovanili spagnoli, Pau debutta in prima squadra al Barcellona dove – purtroppo per il nostro basket – non fa nemmeno in tempo a sfoderare tutto l’arsenale che già viene chiamato in ENE BE A. Nel 2001 viene scelto con la numero 3 al Draft NBA dagli Hawks, che subito lo girano ai Grizzlies per un classico debito di scelte. Ci resta per sette stagioni, straordinarie, prima di volare a L.A. dal genietto Kobe.
I due si capiscono al volo, anche perché parlando in spagnolo si fa presto. Kobe lo chiamava in due modi: “Spaniard”, citazione dal film Il Gladiatore, e “Pablo” come Pablo Escobar: non perché fosse un trafficante di droga, bensì per il suo killer instinct, per motivarlo, come raccontato dallo stesso Pau qualche anno fa in un intervista a Movistar+. I due, formando l’asse portante del triangolo d’attacco di Phil Jackson, ci mettono solo tre finali a mettersi al dito due anelli.
Nel 2014 vola a Chicago dove stradomina il pitturato di mezza NBA e parte titolare all’All-Star Game, facendo rosicare non poco i dirigenti giallo viola che, con quella squadra lì e un Pau del genere, potevano dire ancora qualcosa nella corsa al titolo. Poi dopo i Bulls ci sono gli Spurs, l’amicizia e la stima con Coach Pop, ma anche i problemi fisici. Poi Milwaukee, Portland (dove nemmeno gioca). Ma di ritiro nemmeno se ne parla. Ed eccoci qui, al 25 febbraio 2020: la numero 16 del Barcellona indossata venti anni prima è stata tenuta in caldo per lui e, tirata fuori dalla cassaforte, è pronta ad essere indossata dal più grande, ancora una volta, fino alla fine. Ma chi può dire che è finita? Nessuno. Infatti Gasol non lo dice, ma ha un unico e vero obiettivo: un’ultima olimpiade affianco a suo fratello con la Spagna, portando i suoi colori contro i più grandi avversari, a 41 anni suonati che saranno. Un ultima convocazione Pau, regalaci ancora un altro, l’ultimo, sogno.
PS. Gli altri due dei tre sono in ordine Nowitzki e Petrovic. Insultatemi pure adesso.