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REWIND. Quando la politica va a braccetto con lo sport…

Soundtrack consigliata per la lettura: OVERTONE – COLORBLIND

E’ successo di nuovo! Sport e politica si intrecciano ancora una volta. Dopo la battaglia del Black Lives Matter presa a cuore dall’NBA, tanto da scrivere dietro alle proprie canotte parole legate allo stesso movimento al posto dei nomi degli atleti, oggi molti sportivi americani – tra cui il Re – festeggiano la caduta di Donald Trump e l’ascesa del nuovo presidente, Joe Biden. Del resto, che The Donald non fosse amato dai professionisti dello sport (non solo NBA) non è mistero: pensare che in quattro anni di presidenza nessuna squadra si è presentata da lui alla Casa Bianca per “festeggiare” come da tradizione. Tra gli atleti NBA, sostenitori del nuovo presidente-salvo-sorprese Biden, spicca sicuramente la figura di LeBron James che, tanto per cambiare, ha festeggiato la vittoria elettorale di Uncle Joe su Instagram con questo fotomontaggio.

@kingjames Instagram

Il triangolo James, Biden, Black Lives Matter però è solo l’ultimo esempio di intreccio politico-sportivo noto alle cronache. Recuperiamone dunque qualcuno dal passato, per capire quanto effettivamente questi due mondi vadano di pari passo.

Facciamo questa volta tre balzi indietro.

1995 – Nelson Mandela e i suoi Invincibili

Correva l’a.d. 1995 e, per la prima volta, gli Springboks del Sudafrica – paese devastato dalle conseguenze dell’Apartheid – si affacciavano alla Coppa del Mondo di Rugby (partecipanti solo perché nazione ospitante). In un momento delicato per la nazione, il rugby rappresentava lo sport nazionale, era lo sport degli Afrikaaners; il calcio invece lo sport dei nativi di colore della terra madre africana. Le due “fazioni” non si mischiavano mai, finché non si mise in mezzo un certo Madiba che, insieme a un certo signor Francois Pienaar, ha cambiato il corso degli eventi.

Nelson Mandela, dopo 9000 giorni di carcere, durante il celebre discorso tenuto l’11 febbraio 1990 dagli scranni della City Hall di Città del Capo diceva di “prendere i fucili e gettarli a mare”, iniziando simbolicamente un percorso di rinascita e di unione sociale del paese che sarebbe passata di lì a poco attraverso lo sport. Proprio attraverso la nazionale di Rugby, fino a quel momento per lo più una vergogna per il paese (frequentemente sconfitta, nonché simbolo del potere bianco sulla nazione), Mandela era riuscito a unire il paese sotto gli stessi colori, non il bianco e il nero, ma il verde e l’oro: sfumature dell’essere sudafricani, uniti, insieme. Da cenerentola del torneo le Bokke di capitan Francois Pienaar hanno vinto il loro primo mondiale di rugby il 24 giungo 1995, giorno della finale contro gli invincibili neozelandesi All Blacks in cui Mandela ha premiato, vestendo la maglia Springbok, la sua nazionale all’Ellis Park di Johannesburg unendo simbolicamente il paese nella vittoria. Con un atto simbolico fondamentale, il fratello nero premia il fratello bianco e partecipa con lo stesso entusiasmo alla vittoria di un paese che appartiene a entrambi.

Per approfondire la vicenda, dare un occhio a Invictus di Clint Eastwood.

1968 – Le Pantere di Città del Messico

Olimpiadi. Città del Messico. 1968. Premiazione dei 200 metri piani. Sul podio i due velocisti afro Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente oro e bronzo della competizione. Invece di godersi la gloria alzano il pugno guantato: quello delle Pantere. Per loro manifestare, rivendicare i diritti dei neri d’America viene prima di tutto, prima della vittoria, prima del sapore del metallo guadagnato. Su quel podio con le due Pantere, sul secondo scranno, c’era anche Peter Norman, australiano d’argento che – tra una cosa e l’altra – in quell’occasione ha stabilito un record nazionale mai infranto. Tutto questo però è passato in secondo piano. Norman, estraneo alle due Pantere, ha scelto con loro di indossare la coccarda del movimento Black Panther; per i diritti dei neri ma non solo, anche per le discriminazioni che lui stesso in Australia ha verificato nei confronti di minoranze e aborigeni. In quel caso la protesta non fu condivisa, lo stadio si ammutolì, i due americani furono cacciati dal ritiro, dalla nazionale e in patria subirono minacce di morte. Norman fu invece disconosciuto dalla nazionale australiana, dalla patria e la sua impresa in pista fu dimenticata. Un grande prezzo pagato dai tre per cambiare la storia; e la storia non fa sconti. Ma se oggi abbiamo il Black Lives Matter, e il mondo prova a cambiare, è anche grazie a loro.

1936 – Owens, kaiser a Berlino

Durante le Olimpiadi di Berlino del 1936 Adolf Hitler fece di tutto per far apparire la Germania come un paese “normale” agli occhi del mondo. Altro non voleva che promuovere l’immagine della Germania nazista nel mondo, ma anche provare sul campo la fantomatica superiorità della razza ariana. Tuttavia, se a trionfare nel medagliere fu proprio la Germania, a mettersi in luce non fu nessun atleta tedesco, bensì un leggendario corridore di colore, ricordato come simbolo della manifestazione olimpica. Il 3 agosto del 1936 infatti, Jesse Cleveland Owens vinse l’oro nei 100 a sparo, ammutolendo quell’Olympiastadion dove anche noi italiani, appena qualche annetto dopo, avremmo gioito nel silenzio assordante tedesco. Il campioncino, appena 23enne, figlio di un povero agricoltore di colore dei southern USA, vinse altre tre medaglie d’oro nel corso dei giochi (per un totale di quattro) mettendo in forte difficoltà i nazisti e le loro convinzioni e, si dice, strappando uno sguardo di assenso all’orrido Fuhrer, rapito dalla forza del Lampo d’Ebano che da solo aveva messo a sedere la Germania del Reich.

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